La Patria di marmo
La vicenda legata alla costruzione del monumento a Vittorio Emanuele II è lunga e assai complessa. Ci vollero 50 anni (1885 – 1935) per portare a compimento un cantiere tra i più controversi della storia dell’architettura a Roma, passando dal gusto eclettico di fine Ottocento agli “anni del consenso” mussoliniano, proprio a ridosso dell’avventura imperialista del Duce.
Il ‘Vittoriano’ raccoglie in sé molte anime, dunque, ed è forse anche per questo che i romani non lo hanno mai amato, nutrendo anzi una certa diffidenza nei confronti di questo gigantesco monumento così poco in sintonia con le forme e i colori della Città Eterna.
Il botticino con cui è costruito non ha il calore del travertino, mentre l’ampio emiciclo in alto si incurva come nessun architetto classico avrebbe mai osato. Non a caso Peter Greenaway, eccentrico regista de Il ventre dell’architetto (1990) lo scelse come location ideale per la vicenda del protagonista del film, un visionario architetto statunitense impegnato nell’allestimento di una grande mostra retrospettiva su Étienne-Louis Boullée.
Per non parlare poi degli epiteti utilizzati nel tempo ad indicare il monumento: macchina da scrivere e torta nuziale i più gettonati. Tutti modi di dire piuttosto ‘irriverenti’ se si considera l’alto valore eroico sotteso alla costruzione, voluta fermamente dal neo-nato Parlamento del Regno d’Italia come immagine imperitura dell’epopea risorgimentale e del sacrificio di tante giovani vite in nome dell’Unità d’Italia.
In fondo, nel bene o nel male, resta una presenza imprescindibile nello skyline di Roma. Un gigante addormentato che conserva per noi la memoria di una stagione lontana, ma non per questo da cancellare.